ZEMAN IL “CRISTALLO” DI BOEMIA

di Luca Assumma

Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire”. E ancora: “Comallenatore ho la responsabilità per quello che si fa in campo, ma anche fuori. Per questo cerco di conquistarmi il ruolo di leader, per farmi seguire. Si dice che io incuta timore, ma per imporsi non ci sono spartiti precisi, bisogna cercare di farsi seguire, col buon esempio, attraverso il comportamento personale”. E infine: “Si vorrebbero sempre ragazzi bravi, belli, forti, ma non sempre ci si riesce. Ma a me piace lavorare più con quelli con cui c’è da fare, da discutere. Con questi si comincia con le buone, poi si finisce con le cattive, magari con qualche esclusione dalla squadra ma a me piace la gente che bisogna motivare, cui bisogna insegnare qualcosa”.

Forse, l’essenza di Zdeněk Zeman sta tutta in queste sue frasi. D’accordo, di maestri sul campo ce ne sono tantissimi e non solo nel calcio, specialmente scendendo fino alle categorie minori e a livello giovanile. Ma “Il Boemo” – vuoi perché è stato professore di educazione fisica a Palermo, vuoi perché è uno sportivo poliedrico (anche pallamano, nuoto, hockey su ghiaccio e pallavolo), vuoi perché ha iniziato la sua carriera in panchina sui polverosi campi dilettantistici siciliani, vuoi che a lui piace lavorare con calciatori giovani o provenienti dal basso talvolta lanciati fino alla ribalta internazionale dopo averne amplificato le doti – ispira l’immagine del maestro con i propri discepoli.

E c’è un’altra immagine che si evoca pensando a lui: è quella di uno Zeman a testa alta, dalle parole lentamente ponderate, talvolta sarcastiche, silenzioso ed impassibile (anche se coloro che lo conoscono bene raccontano il contrario), sempre avvolto da una coltre di fumo delle sue immancabili ed innumerevoli sigarette. Chiariamo: nessun riferimento al suo pensiero su “doping”, “Calcioscommesse”, “Calciopoli” e ad altre situazioni analoghe con risvolti extrasportivi, sulle quali comunque ci sarebbe da sottolineare il suo prendere posizioni coraggiose e nette, ma solo alla sua aura carismatica creatasi con tanti elementi.

Tra questi, c’è il pensare sempre ad attaccare, testimoniato dal suo spettacolare e pirotecnico 4-3-3, tecnico e palla a terra verticale, contraddistinto da una linea difensiva altissima pronta a mettere in fuorigioco gli avversari, esterni propulsivi sempre in sovrapposizione, centrocampo proiettato verso la metà campo altrui, attacco vorticoso e veloce senza punti di riferimento, con l’obiettivo dichiarato di segnare un gol in più dell’avversario.

Ma c’è, da sognatore lontano dal realismo, pure il mettere lo spettacolo davanti al risultato: “Si deve cercare di mantenere la passione dei tifosi e cercare di giocare per i tifosi. Dare spettacolo. Io penso che non basti vincere 1 a 0 per essere felici e contenti, se non si è dato niente alla gente. Penso che la gente debba tornare a casa contenta, che abbia visto qualche cosa, che si sia divertita. Pretendo che ogni giocatore dia il meglio di sé stesso, nel rispetto dell’esigenza di fare spettacolo. Se non vinciamo, nessun dramma. Mi basta che i ragazzi abbiano dato il massimo”.

Così come c’è il portare avanti al proprio credo tattico ed atletico, dentro il quale ci sono elementi leggendari come i “gradoni” e il “chilometro del carattere”, anche a scapito di vittorie e carriera, da applicare in modo certosino, per il quale non servono nomi, ma uomini fedeli e determinati: “Modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai. Per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3. Gli altri lavorano in base ai soldi, noi in base alle idee. Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente. Il risultato è casuale, la prestazione no”.

E il pensare e dire frasi forti, come “Alcuni giocatori si lamentano che faccio correre troppo? A Pescara vivo sul lungomare, e ogni mattina vedo un sacco di persone che corrono. E non li paga nessuno loro”.

Una figura, quella de “Il Boemo”, finita addirittura nella “Treccani” (“Zemanlandia” è stato inserito come neologismo come “sistema di gioco fantasioso e votato all’attacco ideato da Zdenek Zeman”) e diffusasi in ambito musicale, televisivo e cinematografico (basti pensare a “La coscienza di Zeman” di Antonello Venditti: “Il tempo sta scadendo ormai, tieni palla dai, il pareggio mai, tu non lo firmerai, perché non cambi mai, il sogno è intatto e tu lo sai”; al “Frengo” di Antonio Albanese a “Mai dire Gol” o ad alcuni documentari).

Certo, un grande fascino che attira in tanti, ma che non coinvolge (anzi, irrita) i detrattori. Ma Zeman, si sa, come tutte le grandi personalità, lo si odia o lo si ama. E ne si sottolineano la bacheca non ricchissima e gli esoneri o lo spettacolo creato in campo e l’entusiasmo generato intorno ad esso.

Parlando di Zeman si potrebbe evocare il lunghissimo (qui naturalmente incompleto) elenco di calciatori, campioni, buoni, normali o addirittura semplici gregari comunque affermatisi, lanciati e/o valorizzati da Il Boemo: da Totti, Nesta, Cafu, Signori, Schillaci, Immobile, Insigne, Verratti, Delvecchio e Di Vaio ai vari Bojinov, Caprari, Vucinic, Osvaldo, Kutuzov e Vignaroli passando per i “foggiani” Mancini, Signori, Baiano, Rambaudi, Di Biagio e Kolyvanov.

Oppure la stima di suoi illustri colleghi come Pep Guardiola (“Zeman è uno degli ultimi utopisti dal punto di vista della visionarietà del calcio. E’ un allenatore preparatissimo che vede il calcio sempre alla stessa maniera di come ha iniziato”), Arrigo Sacchi (“Tecnici come Zeman hanno certamente la dote di saper puntare su ragazzi molto giovani senza paura. Chi sa di calcio ha la capacità, la sensibilità di crescere un giovane, chi non sa di calcio utilizza invece i giocatori anziani perché spera appiano compensare le sue lacune come allenatore”), Carlo Ancelotti (“Zeman è uno che fa bene a questo sport, le sue idee sono sempre valide”), Antonio Conte (“Zeman è un maestro, il suo calcio mi è sempre piaciuto molto) e Carlo Mazzone (“Zeman è una bellissima persona, un grande professionista e ha un modo di interpretare un calcio nel quale la qualità tecnica viene privilegiata”).

Ma forse Zeman è meglio raccontarlo con alcuni aneddoti. Dalla “Madonna” vista da uno stremato Ciccio Baiano dopo gli allenamenti atletici alle “patate depurative” evocate da un affamato Beppe Signori, protagonisti insieme a Roberto Rambaudi del tridente zemaniano a Foggia. Così come i furti di birilli compiuti nei cantieri stradali a Palermo insieme al difensore Tebaldo Bigliardi per incrementare l’insufficiente numero di quelli forniti dalla società per gli allenamenti. E dalla sua passione per le carte, testimoniata dalle partite con Peppino Pavone, ds artefice insieme a Zeman e al presidente Pasquale Casillo del cosiddetto “Foggia dei miracoli”, e dal suo fedelissimo Maurizio Miranda, che narra del tecnico che si multò il doppio rispetto ai suoi giocatori scoperti al tavolo e con i quali si era unito fino a tardi.

Ma, ancora meglio, con le parole di tanti suoi giocatori, su tutte quelle dello spettacolare portiere dei “satanelli”, il compianto Franco Mancini: “Per il Maestro ho un affetto fortissimo che mi lega ancora a lui: è stato un padre, un fratello, un amico! Un uomo dal carisma unico: poche parole ma incisive”.

Luca Assumma

Nel 2021, a 74 anni, al ritiro estivo del Foggia, incurante del suo ruolo, a raccogliere le bottigliette rimaste sul campo a fine allenamento.

COSTANTINO, “IMPERATORE DEL CALCIO DI PROVINCIA”

di Luca Assumma

Se Costantino I, l’imperatore romano, favorì la diffusione del Cristianesimo a partire dal terzo secolo, un altro Costantino, Rozzi l’ascolano, fece altrettanto col calcio di provincia nei ruggenti anni ’70-’80.

Si potrebbero citare Romeo Anconetani e il suo Pisa, Domenico Luzzara e la sua Cremonese, Angelo Massimino e il suo Catania e altri patron.

Ma, forse, non solo grazie al gioco di parole col suo nome di battesimo, è proprio l’indimenticabile Costantino Rozzi, inevitabilmente abbinato al suo Ascoli, che può essere definito “Imperatore del calcio di provincia”, anche se per i suoi tifosi storicamente è stato “Il Presidentissimo”.

Al centro il presidente Costantino Rozzi con i suoi inconfondibili calzini rossi.

Quel calcio dell’umanità prima del business, quello ad una dimensione che si potrebbe considerare “artigianale”, se non addirittura “familiare”; quello dell’identificazione totale della società e della squadra col relativo territorio; quello dei pochi mezzi, ma della tanta passione; quello dei calciatori che giocavano per il proprio presidente; quello più vero, niente a che vedere con fenomeni come bilanci e plusvalenze tarocco, presidenze o fondi stranieri o il peso delle tv e di altri interessi economico-finanziari.

Quel calcio lontano non solo temporalmente, ma anche e, soprattutto, spiritualmente, da quello di oggi, sempre più indebolito a partire proprio negli ultimi anni di vita di Rozzi. Lo stesso che, nel lontano 1979, aveva incredibilmente profetizzato “A lungo andare avremo un campionato europeo con le più grosse società di ciascun paese e, parallelamente, un altro campionato a carattere nazionale se non addirittura regionale con le altre. Juve, Inter, Milan, Torino finiranno inevitabilmente nell’élite e le altre migliori si misureranno in un diverso torneo. Non c’è via d’uscita. Certo all’inizio avremo un trauma non indifferente ma quando ci saremo abituati tutto sembrerà più normale”.

Rozzi, alto e snello, dallo stile signorile in giacca e cravatta spesso accompagnate da un lungo abito beige, era famoso per la sua scaramanzia, incarnata dal colore rosso, declinato allo stadio nella sciarpa svolazzante e, soprattutto, per i leggendari calzini, attraverso i quali, scoprendoli alzando i pantaloni ed agitando le gambe in aria, cercava di portare un influsso positivo ai suoi undici in campo, che seguiva dalla panchina, da dietro le porte o addirittura in curva, come quando si mise ai tamburi a fianco degli ultras. E lo era anche per i suoi scatti di protesta contro arbitri ed avversari, che lo portavano ad essere talvolta espulso dal direttore di gara, e, principalmente, per le sue esultanti corse di gioia verso i suoi uomini e i suoi tifosi, come quel memorabile giro di campo per festeggiare la salvezza all’ultima giornata del torneo ’82-’83 dopo la drammatica vittoria contro il diretto concorrente Cagliari. Ma il numero uno ascolano era apprezzato anche per altro.

Insomma, Rozzi si contraddistingueva per la sua esuberanza, la sua simpatia, il suo entusiasmo, la grande capacità comunicativa, per la voglia di vincere per la sua terra e la sua gente e per l’insofferenza alla sconfitta andando oltre la dimensione sportiva. Elementi che caricavano l’ambiente ascolano con frasi come “Mi sento un giocatore, lotto”, “Il pubblico mi commuove in maniera particolare. Quando vedo i tifosi urlare e cantare tutta la loro passione,un nodo mi percorre la gola” e ”Prima di essere presidente dell’Ascoli, sono ascolano. Non dovete ringraziarmi di aver fatto una buona squadra. Ho la gioia di fare bene per la nostra città e di essere orgoglioso della nostra squadra”.

Ma non c’era solo ciò. Costantino Rozzi, ascolano verace come testimoniato dal suo divertente spiccato accento piceno, iniziò la sua epica avventura alla guida della società rappresentativa della propria città nel 1968. Curiosamente, Rozzi, costruttore edile digiuno di calcio (Ma chi sono quei pazzi che trascorrono il pomeriggio festivo a vedere una partita di calcio?si chiedeva vedendo i tifosi alla domenica), individuato come presidente da una cordata di altri imprenditori locali che avevano rilevato i bianconeri in Serie C, avrebbe dovuto essere un traghettatore. Invece, si innamorò del calcio e della propria squadra (“L’Ascoli è come una malattia, quando ti si attacca non ti lascia più”), guidandolo fino al 1994, anno della sua morte, per ben 26 stagioni, 14 delle quali in Serie A, rendendo il “Picchio” iconico.

Risale alla stagione ’71-’72 l’inizio della scalata che portò l’Ascoli ad essere uno degli emblemi del calcio di provincia italiana, società rappresentativa un piccolo centro intorno ai cinquantamila abitanti come quello piceno, per questo simpatica come il suo istrionico presidente, ma allo stesso tempo agguerrita sul campo e sana e funzionante negli uffici. Ed è proprio in quel torneo che si formò il legame tra Rozzi e un altro grande personaggio amato dai tifosi bianconeri, quel Carletto Mazzone ribattezzato dal patron “coccia pelata” sottolineando le carenze tricologiche del mister, col quale erano protagonisti di animate presenze in panchina o di siparietti come l’entrata negli spogliatoi prima dei match, il cappotto ammucchiato e lanciato in un angolo e la domanda “Che famo oggi? Si vince o no?”. Ma, soprattutto, si poserò anche le basi per l’inizio dell’epopea dei marchigiani nella massima serie, raggiunta nel ’73-’74 con l’allenatore trasteverino che condusse Ascoli Piceno nell’olimpo del calcio.

Il presidentissimo in una delle sue mosse scaramantiche

In quella Serie A mai toccata prima, i bianconeri sfiorarono per due volte la qualificazione in Coppa Uefa, prima nel ’79-’80, guidati da Gibì Fabbri, piazzandosi al quarto posto, e poi nell’’81-’82, ancora con Mazzone in panchina, arrivando sesti. Ci furono salvezze e retrocessioni, quella dell’’84-’85 e dell’’89-’90, prontamente rimediate con un immediato ritorno nella massima categoria. E ci fu anche una coppa europea, la Mitropa Cup nel 1987, vinta con Ilario Castagner mister. Negli anni ’80, il picco storico del “Picchio”, i marchigiani si accreditarono come provinciale terribile, specialmente in un ribollente stadio “Del Duca” raccontato dal mitico corrispondente di “Novantesimo Minuto” Tonino Carino, palcoscenico di prestigiose vittorie contro le squadre più blasonate, battute anche in trasferta.

Una promozione in serie B, quattro in serie A, una vittoria nella Mitropa Cup, un quinto e un sesto posto nel massimo campionato mancando l’Europa di un soffio, grazie ad una società tanto centralizzata quanto competente ed organizzata, pulita, razionale e parsimoniosa, volta a valorizzare i giovani (ancor meglio se locali), capace di portare nelle Marche anche giocatori importanti e pure un allenatore di calibro internazionale come Boskov, orgogliosa e combattiva, paladina delle piccole realtà contro ingiustizie arbitrali e piogge di miliardi di vecchie lire. Un palmares importante, quello de “Il Presidentissimo”, tale da cancellare umanamente e sportivamente la battuta dell’allora presidente dell’Inter Ivanoe Fraizzoli (“Che strada dobbiamo fare per venire ad Ascoli?”) e la velenosa uscita di un giornalista (“Ma cosa vorrà fare questa squadretta fra i mostri sacri della serie A?”) agli albori dell’avventura dei bianconeri marchigiani al vertice del calcio italiano.

Palmares non cancellato dal declino iniziato negli anni ’90 e proseguito dopo la scomparsa del patron, tra Serie B e Serie C, con le sole eccezioni del 2005-2006 e 2006-2007. Un declino non solo dell’Ascoli, ma anche del calcio che rappresentava Rozzi. Il presidente, sessantacinquenne, morì improvvisamente il 18 dicembre 1994. Al suo funerale venne salutato affettuosamente da migliaia di tifosi che bloccarono il centro storico della città.

Già, i suoi tifosi, sui quali, nel 1990, scorgendo il cambiamento, disse: “Ci saranno meno spettatori. Le televisioni danno la possibilità di vedere le partite e rivedere i gol. Solo il tifoso attaccato ed incallito verrà allo stadio”. Quei sostenitori bianconeri con i quali faceva camminate e chiacchierate prima delle partite, sentendosi un tifoso che faceva il presidente. Non per fare scena, ma perché era consapevole dell’aspetto socio-economico del calcio (“A vedere l’Ascoli tutte le classi sono coinvolte, non c’è distinzione fra intellettuale ed analfabeta e fra industriale ed operaio”) e perché percepiva l’importanza del suo ruolo di rappresentante di un popolo e di una terra ai quali era attaccato (“Se giustifichiamo le sconfitte, andiamo diretti in C. Io non lo permetto, per nessun motivo. Prima di tutto, c’è l’Ascoli. Dopo l’Ascoli, c’è l’Ascoli. Dopo l’Ascoli, c’è l’Ascoli. Anche se un giorno dovessi andare via, per il bene dell’Ascoli, l’Ascoli è un bene sociale della città” come dichiarò poco prima di morire) e che metteva in continua osmosi con la quadra (“Il calcio per noi non è soltanto un fatto sportivo. È un fatto sociale, che rappresenta la pedina di lancio per una provincia che per troppo tempo era rimasta in disparte. Per questo faremo di tutto perché la bella favola continui”). A testimoniare tutto ciò, ad esempio, dal suo attivismo per portare ad Ascoli la sede distaccata della facoltà di Architettura dell’Università di Camerino, inaugurata poco prima della sua morte. Altro che presidenti che arrivano da migliaia e migliaia di chilometri di distanza o che si spostano da una città all’altra in base agli interessi…

Costantino Rozzi, era buono ed allo stesso tempo sanguigno, genuino e contemporaneamente elegante, serio e nel contempo leggero. Era dinamico, decisionista, sapeva tirare il meglio dagli altri col suo carisma e la sua benignità. Era un vulcanico combattente, un dinamico trascinatore, un punto di riferimento sportivo ed umano.

Era un signore, prima che presidente. Un signore non solo per la provincia…

Il presidente scende in campo a festeggiare.

Esiste anche un sito dedicato interamente al presidentissimo che potete trovare al seguente indirizzo: http://www.costantinorozzi.it

ZEMAN, IL “CRISTALLO” DI BOEMIA

di Luca Assumma

Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire”. E ancora: “Comallenatore ho la responsabilità per quello che si fa in campo, ma anche fuori. Per questo cerco di conquistarmi il ruolo di leader, per farmi seguire. Si dice che io incuta timore, ma per imporsi non ci sono spartiti precisi, bisogna cercare di farsi seguire, col buon esempio, attraverso il comportamento personale”. E infine: “Si vorrebbero sempre ragazzi bravi, belli, forti, ma non sempre ci si riesce. Ma a me piace lavorare più con quelli con cui c’è da fare, da discutere. Con questi si comincia con le buone, poi si finisce con le cattive, magari con qualche esclusione dalla squadra ma a me piace la gente che bisogna motivare, cui bisogna insegnare qualcosa”.

Forse, l’essenza di Zdeněk Zeman sta tutta in queste sue frasi. D’accordo, di maestri sul campo ce ne sono tantissimi e non solo nel calcio, specialmente scendendo fino alle categorie minori e a livello giovanile. Ma “Il Boemo” – vuoi perché è stato professore di educazione fisica a Palermo, vuoi perché è uno sportivo poliedrico (anche pallamano, nuoto, hockey su ghiaccio e pallavolo), vuoi perché ha iniziato la sua carriera in panchina sui polverosi campi dilettantistici siciliani, vuoi che a lui piace lavorare con calciatori giovani o provenienti dal basso talvolta lanciati fino alla ribalta internazionale dopo averne amplificato le doti – ispira l’immagine del maestro con i propri discepoli.

E c’è un’altra immagine che si evoca pensando a lui: è quella di uno Zeman a testa alta, dalle parole lentamente ponderate, talvolta sarcastiche, silenzioso ed impassibile (anche se coloro che lo conoscono bene raccontano il contrario), sempre avvolto da una coltre di fumo delle sue immancabili ed innumerevoli sigarette. Chiariamo: nessun riferimento al suo pensiero su “doping”, “Calcioscommesse”, “Calciopoli” e ad altre situazioni analoghe con risvolti extrasportivi, sulle quali comunque ci sarebbe da sottolineare il suo prendere posizioni coraggiose e nette, ma solo alla sua aura carismatica creatasi con tanti elementi.

Tra questi, c’è il pensare sempre ad attaccare, testimoniato dal suo spettacolare e pirotecnico 4-3-3, tecnico e palla a terra verticale, contraddistinto da una linea difensiva altissima pronta a mettere in fuorigioco gli avversari, esterni propulsivi sempre in sovrapposizione, centrocampo proiettato verso la metà campo altrui, attacco vorticoso e veloce senza punti di riferimento, con l’obiettivo dichiarato di segnare un gol in più dell’avversario.

Ma c’è, da sognatore lontano dal realismo, pure il mettere lo spettacolo davanti al risultato: “Si deve cercare di mantenere la passione dei tifosi e cercare di giocare per i tifosi. Dare spettacolo. Io penso che non basti vincere 1 a 0 per essere felici e contenti, se non si è dato niente alla gente. Penso che la gente debba tornare a casa contenta, che abbia visto qualche cosa, che si sia divertita. Pretendo che ogni giocatore dia il meglio di sé stesso, nel rispetto dell’esigenza di fare spettacolo. Se non vinciamo, nessun dramma. Mi basta che i ragazzi abbiano dato il massimo”.

Così come c’è il portare avanti al proprio credo tattico ed atletico, dentro il quale ci sono elementi leggendari come i “gradoni” e il “chilometro del carattere”, anche a scapito di vittorie e carriera, da applicare in modo certosino, per il quale non servono nomi, ma uomini fedeli e determinati: “Modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai. Per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3. Gli altri lavorano in base ai soldi, noi in base alle idee. Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente. Il risultato è casuale, la prestazione no”.

E il pensare e dire frasi forti, come “Alcuni giocatori si lamentano che faccio correre troppo? A Pescara vivo sul lungomare, e ogni mattina vedo un sacco di persone che corrono. E non li paga nessuno loro”.

Una figura, quella de “Il Boemo”, finita addirittura nella “Treccani” (“Zemanlandia” è stato inserito come neologismo come “sistema di gioco fantasioso e votato all’attacco ideato da Zdenek Zeman”) e diffusasi in ambito musicale, televisivo e cinematografico (basti pensare a “La coscienza di Zeman” di Antonello Venditti: “Il tempo sta scadendo ormai, tieni palla dai, il pareggio mai, tu non lo firmerai, perché non cambi mai, il sogno è intatto e tu lo sai”; al “Frengo” di Antonio Albanese a “Mai dire Gol” o ad alcuni documentari).

Certo, un grande fascino che attira in tanti, ma che non coinvolge (anzi, irrita) i detrattori. Ma Zeman, si sa, come tutte le grandi personalità, lo si odia o lo si ama. E ne si sottolineano la bacheca non ricchissima e gli esoneri o lo spettacolo creato in campo e l’entusiasmo generato intorno ad esso.

Parlando di Zeman si potrebbe evocare il lunghissimo (qui naturalmente incompleto) elenco di calciatori, campioni, buoni, normali o addirittura semplici gregari comunque affermatisi, lanciati e/o valorizzati da Il Boemo: da Totti, Nesta, Cafu, Signori, Schillaci, Immobile, Insigne, Verratti, Delvecchio e Di Vaio ai vari Bojinov, Caprari, Vucinic, Osvaldo, Kutuzov e Vignaroli passando per i “foggiani” Mancini, Signori, Baiano, Rambaudi, Di Biagio e Kolyvanov.

Oppure la stima di suoi illustri colleghi come Pep Guardiola (“Zeman è uno degli ultimi utopisti dal punto di vista della visionarietà del calcio. E’ un allenatore preparatissimo che vede il calcio sempre alla stessa maniera di come ha iniziato”), Arrigo Sacchi (“Tecnici come Zeman hanno certamente la dote di saper puntare su ragazzi molto giovani senza paura. Chi sa di calcio ha la capacità, la sensibilità di crescere un giovane, chi non sa di calcio utilizza invece i giocatori anziani perché spera appiano compensare le sue lacune come allenatore”), Carlo Ancelotti (“Zeman è uno che fa bene a questo sport, le sue idee sono sempre valide”), Antonio Conte (“Zeman è un maestro, il suo calcio mi è sempre piaciuto molto) e Carlo Mazzone (“Zeman è una bellissima persona, un grande professionista e ha un modo di interpretare un calcio nel quale la qualità tecnica viene privilegiata”).

Ma forse Zeman è meglio raccontarlo con alcuni aneddoti. Dalla “Madonna” vista da uno stremato Ciccio Baiano dopo gli allenamenti atletici alle “patate depurative” evocate da un affamato Beppe Signori, protagonisti insieme a Roberto Rambaudi del tridente zemaniano a Foggia. Così come i furti di birilli compiuti nei cantieri stradali a Palermo insieme al difensore Tebaldo Bigliardi per incrementare l’insufficiente numero di quelli forniti dalla società per gli allenamenti. E dalla sua passione per le carte, testimoniata dalle partite con Peppino Pavone, ds artefice insieme a Zeman e al presidente Pasquale Casillo del cosiddetto “Foggia dei miracoli”, e dal suo fedelissimo Maurizio Miranda, che narra del tecnico che si multò il doppio rispetto ai suoi giocatori scoperti al tavolo e con i quali si era unito fino a tardi.

Ma, ancora meglio, con le parole di tanti suoi giocatori, su tutte quelle dello spettacolare portiere dei “satanelli”, il compianto Franco Mancini: “Per il Maestro ho un affetto fortissimo che mi lega ancora a lui: è stato un padre, un fratello, un amico! Un uomo dal carisma unico: poche parole ma incisive”.

Luca Assumma

Nel 2021, a 74 anni, al ritiro estivo del Foggia, incurante del suo ruolo, a raccogliere le bottigliette rimaste sul campo a fine allenamento.