di Luca Assumma

“Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire”. E ancora: “Come allenatore ho la responsabilità per quello che si fa in campo, ma anche fuori. Per questo cerco di conquistarmi il ruolo di leader, per farmi seguire. Si dice che io incuta timore, ma per imporsi non ci sono spartiti precisi, bisogna cercare di farsi seguire, col buon esempio, attraverso il comportamento personale”. E infine: “Si vorrebbero sempre ragazzi bravi, belli, forti, ma non sempre ci si riesce. Ma a me piace lavorare più con quelli con cui c’è da fare, da discutere. Con questi si comincia con le buone, poi si finisce con le cattive, magari con qualche esclusione dalla squadra ma a me piace la gente che bisogna motivare, cui bisogna insegnare qualcosa”.
Forse, l’essenza di Zdeněk Zeman sta tutta in queste sue frasi. D’accordo, di maestri sul campo ce ne sono tantissimi e non solo nel calcio, specialmente scendendo fino alle categorie minori e a livello giovanile. Ma “Il Boemo” – vuoi perché è stato professore di educazione fisica a Palermo, vuoi perché è uno sportivo poliedrico (anche pallamano, nuoto, hockey su ghiaccio e pallavolo), vuoi perché ha iniziato la sua carriera in panchina sui polverosi campi dilettantistici siciliani, vuoi che a lui piace lavorare con calciatori giovani o provenienti dal basso talvolta lanciati fino alla ribalta internazionale dopo averne amplificato le doti – ispira l’immagine del maestro con i propri discepoli.
E c’è un’altra immagine che si evoca pensando a lui: è quella di uno Zeman a testa alta, dalle parole lentamente ponderate, talvolta sarcastiche, silenzioso ed impassibile (anche se coloro che lo conoscono bene raccontano il contrario), sempre avvolto da una coltre di fumo delle sue immancabili ed innumerevoli sigarette. Chiariamo: nessun riferimento al suo pensiero su “doping”, “Calcioscommesse”, “Calciopoli” e ad altre situazioni analoghe con risvolti extrasportivi, sulle quali comunque ci sarebbe da sottolineare il suo prendere posizioni coraggiose e nette, ma solo alla sua aura carismatica creatasi con tanti elementi.
Tra questi, c’è il pensare sempre ad attaccare, testimoniato dal suo spettacolare e pirotecnico 4-3-3, tecnico e palla a terra verticale, contraddistinto da una linea difensiva altissima pronta a mettere in fuorigioco gli avversari, esterni propulsivi sempre in sovrapposizione, centrocampo proiettato verso la metà campo altrui, attacco vorticoso e veloce senza punti di riferimento, con l’obiettivo dichiarato di segnare un gol in più dell’avversario.
Ma c’è, da sognatore lontano dal realismo, pure il mettere lo spettacolo davanti al risultato: “Si deve cercare di mantenere la passione dei tifosi e cercare di giocare per i tifosi. Dare spettacolo. Io penso che non basti vincere 1 a 0 per essere felici e contenti, se non si è dato niente alla gente. Penso che la gente debba tornare a casa contenta, che abbia visto qualche cosa, che si sia divertita. Pretendo che ogni giocatore dia il meglio di sé stesso, nel rispetto dell’esigenza di fare spettacolo. Se non vinciamo, nessun dramma. Mi basta che i ragazzi abbiano dato il massimo”.
Così come c’è il portare avanti al proprio credo tattico ed atletico, dentro il quale ci sono elementi leggendari come i “gradoni” e il “chilometro del carattere”, anche a scapito di vittorie e carriera, da applicare in modo certosino, per il quale non servono nomi, ma uomini fedeli e determinati: “Modulo e sistemi di allenamento non li cambierò mai. Per coprire il campo non esiste un modulo migliore del 4-3-3. Gli altri lavorano in base ai soldi, noi in base alle idee. Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente. Il risultato è casuale, la prestazione no”.
E il pensare e dire frasi forti, come “Alcuni giocatori si lamentano che faccio correre troppo? A Pescara vivo sul lungomare, e ogni mattina vedo un sacco di persone che corrono. E non li paga nessuno loro”.
Una figura, quella de “Il Boemo”, finita addirittura nella “Treccani” (“Zemanlandia” è stato inserito come neologismo come “sistema di gioco fantasioso e votato all’attacco ideato da Zdenek Zeman”) e diffusasi in ambito musicale, televisivo e cinematografico (basti pensare a “La coscienza di Zeman” di Antonello Venditti: “Il tempo sta scadendo ormai, tieni palla dai, il pareggio mai, tu non lo firmerai, perché non cambi mai, il sogno è intatto e tu lo sai”; al “Frengo” di Antonio Albanese a “Mai dire Gol” o ad alcuni documentari).
Certo, un grande fascino che attira in tanti, ma che non coinvolge (anzi, irrita) i detrattori. Ma Zeman, si sa, come tutte le grandi personalità, lo si odia o lo si ama. E ne si sottolineano la bacheca non ricchissima e gli esoneri o lo spettacolo creato in campo e l’entusiasmo generato intorno ad esso.
Parlando di Zeman si potrebbe evocare il lunghissimo (qui naturalmente incompleto) elenco di calciatori, campioni, buoni, normali o addirittura semplici gregari comunque affermatisi, lanciati e/o valorizzati da Il Boemo: da Totti, Nesta, Cafu, Signori, Schillaci, Immobile, Insigne, Verratti, Delvecchio e Di Vaio ai vari Bojinov, Caprari, Vucinic, Osvaldo, Kutuzov e Vignaroli passando per i “foggiani” Mancini, Signori, Baiano, Rambaudi, Di Biagio e Kolyvanov.
Oppure la stima di suoi illustri colleghi come Pep Guardiola (“Zeman è uno degli ultimi utopisti dal punto di vista della visionarietà del calcio. E’ un allenatore preparatissimo che vede il calcio sempre alla stessa maniera di come ha iniziato”), Arrigo Sacchi (“Tecnici come Zeman hanno certamente la dote di saper puntare su ragazzi molto giovani senza paura. Chi sa di calcio ha la capacità, la sensibilità di crescere un giovane, chi non sa di calcio utilizza invece i giocatori anziani perché spera appiano compensare le sue lacune come allenatore”), Carlo Ancelotti (“Zeman è uno che fa bene a questo sport, le sue idee sono sempre valide”), Antonio Conte (“Zeman è un maestro, il suo calcio mi è sempre piaciuto molto) e Carlo Mazzone (“Zeman è una bellissima persona, un grande professionista e ha un modo di interpretare un calcio nel quale la qualità tecnica viene privilegiata”).
Ma forse Zeman è meglio raccontarlo con alcuni aneddoti. Dalla “Madonna” vista da uno stremato Ciccio Baiano dopo gli allenamenti atletici alle “patate depurative” evocate da un affamato Beppe Signori, protagonisti insieme a Roberto Rambaudi del tridente zemaniano a Foggia. Così come i furti di birilli compiuti nei cantieri stradali a Palermo insieme al difensore Tebaldo Bigliardi per incrementare l’insufficiente numero di quelli forniti dalla società per gli allenamenti. E dalla sua passione per le carte, testimoniata dalle partite con Peppino Pavone, ds artefice insieme a Zeman e al presidente Pasquale Casillo del cosiddetto “Foggia dei miracoli”, e dal suo fedelissimo Maurizio Miranda, che narra del tecnico che si multò il doppio rispetto ai suoi giocatori scoperti al tavolo e con i quali si era unito fino a tardi.
Ma, ancora meglio, con le parole di tanti suoi giocatori, su tutte quelle dello spettacolare portiere dei “satanelli”, il compianto Franco Mancini: “Per il Maestro ho un affetto fortissimo che mi lega ancora a lui: è stato un padre, un fratello, un amico! Un uomo dal carisma unico: poche parole ma incisive”.
Luca Assumma
