di Luca Assumma
Se Costantino I, l’imperatore romano, favorì la diffusione del Cristianesimo a partire dal terzo secolo, un altro Costantino, Rozzi l’ascolano, fece altrettanto col calcio di provincia nei ruggenti anni ’70-’80.
Si potrebbero citare Romeo Anconetani e il suo Pisa, Domenico Luzzara e la sua Cremonese, Angelo Massimino e il suo Catania e altri patron.
Ma, forse, non solo grazie al gioco di parole col suo nome di battesimo, è proprio l’indimenticabile Costantino Rozzi, inevitabilmente abbinato al suo Ascoli, che può essere definito “Imperatore del calcio di provincia”, anche se per i suoi tifosi storicamente è stato “Il Presidentissimo”.

Quel calcio dell’umanità prima del business, quello ad una dimensione che si potrebbe considerare “artigianale”, se non addirittura “familiare”; quello dell’identificazione totale della società e della squadra col relativo territorio; quello dei pochi mezzi, ma della tanta passione; quello dei calciatori che giocavano per il proprio presidente; quello più vero, niente a che vedere con fenomeni come bilanci e plusvalenze tarocco, presidenze o fondi stranieri o il peso delle tv e di altri interessi economico-finanziari.
Quel calcio lontano non solo temporalmente, ma anche e, soprattutto, spiritualmente, da quello di oggi, sempre più indebolito a partire proprio negli ultimi anni di vita di Rozzi. Lo stesso che, nel lontano 1979, aveva incredibilmente profetizzato “A lungo andare avremo un campionato europeo con le più grosse società di ciascun paese e, parallelamente, un altro campionato a carattere nazionale se non addirittura regionale con le altre. Juve, Inter, Milan, Torino finiranno inevitabilmente nell’élite e le altre migliori si misureranno in un diverso torneo. Non c’è via d’uscita. Certo all’inizio avremo un trauma non indifferente ma quando ci saremo abituati tutto sembrerà più normale”.
Rozzi, alto e snello, dallo stile signorile in giacca e cravatta spesso accompagnate da un lungo abito beige, era famoso per la sua scaramanzia, incarnata dal colore rosso, declinato allo stadio nella sciarpa svolazzante e, soprattutto, per i leggendari calzini, attraverso i quali, scoprendoli alzando i pantaloni ed agitando le gambe in aria, cercava di portare un influsso positivo ai suoi undici in campo, che seguiva dalla panchina, da dietro le porte o addirittura in curva, come quando si mise ai tamburi a fianco degli ultras. E lo era anche per i suoi scatti di protesta contro arbitri ed avversari, che lo portavano ad essere talvolta espulso dal direttore di gara, e, principalmente, per le sue esultanti corse di gioia verso i suoi uomini e i suoi tifosi, come quel memorabile giro di campo per festeggiare la salvezza all’ultima giornata del torneo ’82-’83 dopo la drammatica vittoria contro il diretto concorrente Cagliari. Ma il numero uno ascolano era apprezzato anche per altro.


Insomma, Rozzi si contraddistingueva per la sua esuberanza, la sua simpatia, il suo entusiasmo, la grande capacità comunicativa, per la voglia di vincere per la sua terra e la sua gente e per l’insofferenza alla sconfitta andando oltre la dimensione sportiva. Elementi che caricavano l’ambiente ascolano con frasi come “Mi sento un giocatore, lotto”, “Il pubblico mi commuove in maniera particolare. Quando vedo i tifosi urlare e cantare tutta la loro passione,un nodo mi percorre la gola” e ”Prima di essere presidente dell’Ascoli, sono ascolano. Non dovete ringraziarmi di aver fatto una buona squadra. Ho la gioia di fare bene per la nostra città e di essere orgoglioso della nostra squadra”.
Ma non c’era solo ciò. Costantino Rozzi, ascolano verace come testimoniato dal suo divertente spiccato accento piceno, iniziò la sua epica avventura alla guida della società rappresentativa della propria città nel 1968. Curiosamente, Rozzi, costruttore edile digiuno di calcio (“Ma chi sono quei pazzi che trascorrono il pomeriggio festivo a vedere una partita di calcio?” si chiedeva vedendo i tifosi alla domenica), individuato come presidente da una cordata di altri imprenditori locali che avevano rilevato i bianconeri in Serie C, avrebbe dovuto essere un traghettatore. Invece, si innamorò del calcio e della propria squadra (“L’Ascoli è come una malattia, quando ti si attacca non ti lascia più”), guidandolo fino al 1994, anno della sua morte, per ben 26 stagioni, 14 delle quali in Serie A, rendendo il “Picchio” iconico.
Risale alla stagione ’71-’72 l’inizio della scalata che portò l’Ascoli ad essere uno degli emblemi del calcio di provincia italiana, società rappresentativa un piccolo centro intorno ai cinquantamila abitanti come quello piceno, per questo simpatica come il suo istrionico presidente, ma allo stesso tempo agguerrita sul campo e sana e funzionante negli uffici. Ed è proprio in quel torneo che si formò il legame tra Rozzi e un altro grande personaggio amato dai tifosi bianconeri, quel Carletto Mazzone ribattezzato dal patron “coccia pelata” sottolineando le carenze tricologiche del mister, col quale erano protagonisti di animate presenze in panchina o di siparietti come l’entrata negli spogliatoi prima dei match, il cappotto ammucchiato e lanciato in un angolo e la domanda “Che famo oggi? Si vince o no?”. Ma, soprattutto, si poserò anche le basi per l’inizio dell’epopea dei marchigiani nella massima serie, raggiunta nel ’73-’74 con l’allenatore trasteverino che condusse Ascoli Piceno nell’olimpo del calcio.

In quella Serie A mai toccata prima, i bianconeri sfiorarono per due volte la qualificazione in Coppa Uefa, prima nel ’79-’80, guidati da Gibì Fabbri, piazzandosi al quarto posto, e poi nell’’81-’82, ancora con Mazzone in panchina, arrivando sesti. Ci furono salvezze e retrocessioni, quella dell’’84-’85 e dell’’89-’90, prontamente rimediate con un immediato ritorno nella massima categoria. E ci fu anche una coppa europea, la Mitropa Cup nel 1987, vinta con Ilario Castagner mister. Negli anni ’80, il picco storico del “Picchio”, i marchigiani si accreditarono come provinciale terribile, specialmente in un ribollente stadio “Del Duca” raccontato dal mitico corrispondente di “Novantesimo Minuto” Tonino Carino, palcoscenico di prestigiose vittorie contro le squadre più blasonate, battute anche in trasferta.
Una promozione in serie B, quattro in serie A, una vittoria nella Mitropa Cup, un quinto e un sesto posto nel massimo campionato mancando l’Europa di un soffio, grazie ad una società tanto centralizzata quanto competente ed organizzata, pulita, razionale e parsimoniosa, volta a valorizzare i giovani (ancor meglio se locali), capace di portare nelle Marche anche giocatori importanti e pure un allenatore di calibro internazionale come Boskov, orgogliosa e combattiva, paladina delle piccole realtà contro ingiustizie arbitrali e piogge di miliardi di vecchie lire. Un palmares importante, quello de “Il Presidentissimo”, tale da cancellare umanamente e sportivamente la battuta dell’allora presidente dell’Inter Ivanoe Fraizzoli (“Che strada dobbiamo fare per venire ad Ascoli?”) e la velenosa uscita di un giornalista (“Ma cosa vorrà fare questa squadretta fra i mostri sacri della serie A?”) agli albori dell’avventura dei bianconeri marchigiani al vertice del calcio italiano.
Palmares non cancellato dal declino iniziato negli anni ’90 e proseguito dopo la scomparsa del patron, tra Serie B e Serie C, con le sole eccezioni del 2005-2006 e 2006-2007. Un declino non solo dell’Ascoli, ma anche del calcio che rappresentava Rozzi. Il presidente, sessantacinquenne, morì improvvisamente il 18 dicembre 1994. Al suo funerale venne salutato affettuosamente da migliaia di tifosi che bloccarono il centro storico della città.
Già, i suoi tifosi, sui quali, nel 1990, scorgendo il cambiamento, disse: “Ci saranno meno spettatori. Le televisioni danno la possibilità di vedere le partite e rivedere i gol. Solo il tifoso attaccato ed incallito verrà allo stadio”. Quei sostenitori bianconeri con i quali faceva camminate e chiacchierate prima delle partite, sentendosi un tifoso che faceva il presidente. Non per fare scena, ma perché era consapevole dell’aspetto socio-economico del calcio (“A vedere l’Ascoli tutte le classi sono coinvolte, non c’è distinzione fra intellettuale ed analfabeta e fra industriale ed operaio”) e perché percepiva l’importanza del suo ruolo di rappresentante di un popolo e di una terra ai quali era attaccato (“Se giustifichiamo le sconfitte, andiamo diretti in C. Io non lo permetto, per nessun motivo. Prima di tutto, c’è l’Ascoli. Dopo l’Ascoli, c’è l’Ascoli. Dopo l’Ascoli, c’è l’Ascoli. Anche se un giorno dovessi andare via, per il bene dell’Ascoli, l’Ascoli è un bene sociale della città” come dichiarò poco prima di morire) e che metteva in continua osmosi con la quadra (“Il calcio per noi non è soltanto un fatto sportivo. È un fatto sociale, che rappresenta la pedina di lancio per una provincia che per troppo tempo era rimasta in disparte. Per questo faremo di tutto perché la bella favola continui”). A testimoniare tutto ciò, ad esempio, dal suo attivismo per portare ad Ascoli la sede distaccata della facoltà di Architettura dell’Università di Camerino, inaugurata poco prima della sua morte. Altro che presidenti che arrivano da migliaia e migliaia di chilometri di distanza o che si spostano da una città all’altra in base agli interessi…


Costantino Rozzi, era buono ed allo stesso tempo sanguigno, genuino e contemporaneamente elegante, serio e nel contempo leggero. Era dinamico, decisionista, sapeva tirare il meglio dagli altri col suo carisma e la sua benignità. Era un vulcanico combattente, un dinamico trascinatore, un punto di riferimento sportivo ed umano.
Era un signore, prima che presidente. Un signore non solo per la provincia…

Esiste anche un sito dedicato interamente al presidentissimo che potete trovare al seguente indirizzo: http://www.costantinorozzi.it